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Anche la felicità è un servizio ecosistemico


di Ferdinando Cotugno

Quando parliamo di boschi, c’è questa formula in voga: «servizi ecosistemici», esoterica il giusto, come tutte le espressioni tecniche ben fatte. Vuol dire che col bosco abbiamo una relazione, questa relazione ci porta diversi benefici, questi benefici sono i servizi ecosistemici: la protezione dalle frane, il legno, i funghi, il turismo, le passeggiate, l’assorbimento di CO2, la musica. Non ci pensiamo mai in questi termini, ma la maggior parte degli strumenti musicali sono in legno, tavole e casse armoniche a un certo punto della loro esistenza erano abeti dentro un bosco. Se esiste la musica come la conosciamo, è perché esistono le foreste. Wonderwall degli Oasis è un servizio ecosistemico.

C’è stato un anno della mia vita in cui ho provato a mettere insieme i termini di questa relazione, che è complessa e un po’ squilibrata, come molte relazioni. Questo lavoro è diventato un libro, si intitola Italian Wood. Quando mi chiedevano: «Che stai facendo?», rispondevo: «Sto unendo i puntini nel paesaggio». Ci sono numeri grandi e pressoché invisibili: più di un terzo d’Italia è coperto di boschi, la superficie è raddoppiata nel corso della storia repubblicana, il bosco è avanzato, portando domande, che non sono le sue, ma le nostre. Lo squilibrio della relazione è questo: il bosco non ha bisogno di noi, ma noi ci siamo e questo per ora non è un dato negoziabile. Possiamo solo negoziare i termini di questa relazione, dosando bisogni e cura. È difficile, ma lo è ogni amore duraturo.

Quando il lavoro stava finendo, mi sono reso conto che non avevo unito dei puntini nel paesaggio, come credevo con grande presunzione, ma avevo solo definito i contorni di un disegno che all’inizio non riuscivo a vedere e in quel disegno c’eravamo noi. Famiglia, nazione, società: il bosco è uno specchio collettivo, dentro ci ho ritrovato la storia della mia famiglia, gente contadina che a un certo punto negli anni ’60 aveva scelto di vivere in città, perché gli era sembrato conveniente o necessario o un intreccio delle due cose. È su storie come quella dei miei nonni che il bosco si è mosso e ha conquistato lo spazio che ha oggi. In Italia ci sono più foreste che campi coltivati: non succedeva da diversi secoli. Se uscisse un giornale ogni secolo, questa notizia meriterebbe sicuramente l’apertura nella sezione territorio.

Sono stato un bambino di città. È una sciagura, ma non ci si può fare nulla. Ero abbonato al WWF, leggevo Airone, in natura sarei durato poche decine di minuti, la mia incompetenza mi rendeva biodegradabile. Il bosco è stato un esercizio di addomesticamento durato tutta la vita, ho sempre avuto una propensione alla natura, per lo stesso motivo per cui ho paura di volare e prendo (prendevo) tantissimi aerei. Scrivere Italian Wood è stato innanzitutto rispondere a un prurito personale, che veniva da tante direzioni: la fascinazione per gli spazi naturali, l’ansia per la crisi climatica, il rifiuto per la mia natura urbana. Credo che nessuno possa dire di capire il bosco, nemmeno i grandi professori forestali (in Italia ce ne sono tanti). Però c’è stato un giorno, dopo aver chiuso e consegnato il libro, in quella sciagura che chiamiamo per convenzione 2020, in cui mi sono sentito davvero dentro il bosco, non un visitatore, ma un cittadino, nel senso di bambino di città recovering e membro di una comunità. Era una faggeta in Abruzzo alla quale si accede dal Passo Godi, tra Scanno e Barrea. Ero frammentato in una serie preoccupante di pezzi, per motivi lunghi da spiegare, e camminando piano e in silenzio verso il faggio del Pontone, 600 anni di età, mi sono sentito incollato di nuovo insieme, un pezzo alla volta. Mi sono sentito di nuovo bene, in quel complesso ambiente in corso di addomesticamento. Anche la felicità può essere un servizio ecosistemico.

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